giovedì 10 luglio 2008

UN DATO ERA CERTO

Un dato era certo e incontestabile: no, non si trattava di suicidio - la cosa era talmente evidente e lampante che da sé sola si palesava con inconfutabilissima evidenza e assai incoercibile certezza. Una assoluta verità, certo, assodata e indubbia; ma per quanto oltremodo banale apparisse, non per questo assumeva connotati meno veri, privi di importanza e di buon senso. Un altro dato, poi, spiccava sopra gli altri, ed era altrettanto fermo: lo strano ragioniere Alfredo Accettati, sfegatato tifoso del Chievo, in abito da mandarino cinese, era stato ucciso dopo, e non prima, essersi accuratamente sbarbato e avere portato a termine il proprio autoritratto – sicuro, era stato ammazzato dopo, e non prima. In un qualunque delitto, nella fattispecie un orrendo e ripugnante omicidio, macabro nella brutalità e di cattivo gusto nella modalità esecutoria, la scansione logica e la sequenza temporale degli eventi è fondamentale per risalire al colpevole, e l’ispettore Branco annetteva sempre grande importanza a ogni dettaglio, anche al più apparentemente irrilevante e insignificativo. L’ispettore stringeva in pugno un elemento inoppugnabile, incontrovertibile, di portata decisiva. L’elemento in suo palmo scagionava il sospettato numero uno, la sciatta e pettegola moglie dell’ucciso ragioniere, la signora Margherita, anch’essa sfegatata tifosa del Chievo. Ogni ipotesi circa una sua colpevolezza, un suo coinvolgimento diretto o indiretto nell’atroce delitto, era categoricamente da escludere. La signora Margherita, nemmeno lontanamente era suscettibile si essere sospettata del crimine, la cui atroce efferatezza dava il voltastomaco a Branco. L’ispettore Branco con profonda e intima convinzione che derivava da una rigida e ferrea disciplina intellettuale e discendeva da una più flessibile ed elastica capacità analitica, accettò senza riserve questa sua brillante deduzione, e annuendo a se stesso un paio di volte e accarezzandosi con pacato compiacimento il grasso mento tondo, derubricò il nome della signora dal block notes degli indagati. Con la sua immancabile biro all’inchiostro blu, sempre a metà, egli tracciò una linea sopra il registro dei sospettati. Accanto al nome della signora abbozzò il disegno di un fiore, una margherita dai tratti delicatamente infantili- in fondo, l’ispettore Branco era rimasto un inguaribile fanciullone, sin dai tempi della fanciullezza. Inconsciamente fece lo scarabocchio d’un fiore, con la sua piccola corolla e i suoi candidi petalini, e questo quasi lo commosse fino alle lagrime: egli stesso, senza volerlo, a posteriori, a mente fredda, si rese conto teneramente del pensiero così gentile e così sensibile sbocciato nella sua anima. No, accantonando ora ogni sentimentalismo commiserevole e rientrando nella cruda incombenza delle indagini, Branco intuiva che non poteva essere stata lei, la pettegola defunta, a piantare l’accetta dal manico di gomma dura, arnese che scisse in due e separò perfettamente la metà sinistra da quella destra del capo dello sfortunato marito, il vedovo signor Alfredo, strano ragioniere con l’hobby della pittura, anch’egli, al pari della moglie morta, sfegatato tifoso del Chievo. A Branco non sfuggiva che Margherita, tre settimane prima, la vigilia del Natale, era stata fatta fuori, pure lei, con la stessa arma, con lo stesso macabro metodo, la stessa procedura e lo stesso lugubre teatrale effetto: un cuneo apertole in testa dalla lucida lama d’acciaio d’una fredda accetta dal manico ergonomico di dura gomma nera. Una bella strenna natalizia. Molto originale. L’arma adoperata per il cruento delitto della signora Margherita, un’ascia dal manico di gomma dura dall’impugnatura ergonomica, non era la stessa ascia piantata in testa al marito. Quella era al vaglio della polizia scientifica dei carabinieri, che la stavano esaminando, da capo a pie’. Branco pensò a un macabro rituale, a un delitto annunciato, dai risvolti tanto esoterici quanto macabri e tanto macabri quanto rituali. Un delitto efferato - come da anni non venivano commessi nel sordido quartiere della lurida città stracolma di monnezza - come lo era stato, appena quasi cinquecentoquattro ore prima, quello che aveva aperto la scatola cranica della testa della povera signora Margherita.

Dalla finestra semiaperta della stanza, attraverso le tende chiuse, spirava un vento gelido, alitava un brivido di freddo, un freddo gelido di morte. Sul pavimento non giacevano fogli sparsi, nella stanza nessuna seggiola rovesciata. Tutto era al proprio posto, la scena del delitto si presentava perfettamente in bell’ordine. Tutto era asettico, perfetto, calmo e sereno, e il tutto dava un’impressione di normalità, di banale e composta normalità. Branco aveva un’aria scettica e sperduta, un’aria di transizione, di trapasso tra l’ossessione del precedente delitto ancora irrisolto e la preoccupazione attuale, altrettanto angosciosa, che cominciava a farsi strada e che aveva attinenza con l’enigma presente. Un altro grattacapo, una gatta da pelare in più. Un’agitazione latente, ch’egli sapeva ancora dominare, cresceva nel suo animo. Non aveva certezze. Del resto, certezze di che genere, poteva egli avere? Non sapeva nulla, il meschino, relativamente al delitto, la sua mente era una tabula rasa. Quel che era peggio, e più angosciante, Branco non aveva nemmeno dubbi e manco pensieri. Non aveva niente per la capa, non sapeva a che appigliarsi. Brancolava. Gli sfuggiva di mano la realtà, la logica delle cose. L’unica dura realtà era la brutale e irridente ironia di quell’ascia conficcata nella testa del ragioniere Accettati. Una macabra e beffarda ironia. Mentre si guardava in giro, egli cercava di riordinare in testa, per quel che poteva, le idee che non aveva. Da qualche parte bisognava pur cominciare le indagini. Si sforzò di partorire delle idee. Non sapeva proprio da quale punto partire, da quale punto cominciare. Provò ad abbozzare. Diede corso ai suoi primi e ancora confusi pensieri, molto nebulosi malfermi e incerti. Per primo, provò a chiedersi se per caso si trattasse di un delitto maturato in famiglia. Ipotizzando e teorizzando, scoteva il capo e dubitava della cosa, pur non decampando, pur a priori non scartando la sua stessa assurda ipotesi. Qualunque cosa egli ipotizzava, subito controipotizzava, la confutava. Che il delitto potesse essere scaturito da un improvviso scatto di nervi, che il crimine potesse essere il frutto, distruttivo e velenoso, di uno screzio, di un diverbio, di un improvviso dissapore, di una esacerbata incomprensione tra i coniugi, dell’escalation di una situazione di crisi sfuggita di mano, o di un atto di ritorsione o di rivalsa dell’uno verso l’altra, insomma una faida interna tra coniugi, di una ripicca nata e sfociata tra le mura domestiche di una famiglia per bene e comune, di un render pan per focaccia, Branco non si sentiva di escluderlo. Ma capiva che si trattava in maniera lampante d’un’ipotesi implausibile. E intanto la sua mente ondivaga, egli dolorosamente se ne rendeva perfettamente conto, scivolava nel nulla, fluttuava nel nulla e annegava nelle sabbie mobili del più scettico dello scetticismo (intanto, non sapendo in che direzione muoversi e in che direzione volgere i suoi pensieri, dentro di sé rimuginava: ”un matrimonio distrutto, prima lei, poi lui”). Dopo aver riflettuto adeguatamente, scartò l’ipotesi investigativa di carattere familiare – gli parve piuttosto debole – e ne dedusse che l’efferato delitto era da ascrivere a ragioni ben più profonde, a moventi più gravi, più urgenti e più seri. Più strutturali e meno occasionali. Già, ma quali? Cosa c’era sotto? Chi e perché aveva colpito due coniugi, due sfegatati tifosi del Chievo? – quest’ultima circostanza c’entrava col delitto? Per quale motivo l’omicida s’era spinto a tanta umana efferatezza? Branco non sapeva, non aveva in tasca la verità, non era in grado di dare una sola risposta alle sue tre o quattro lecite domande, non faceva nemmeno vane e accademiche congetture. A che serviva? A confondersi ancor più le idee? A intorbidare ancor più le ferme acque melmose di quello stagno morto? Si trattava di un autentico giallo dalla trama oscura e ingarbugliata, dalla dinamica chiara e lampante, ma dal movente incomprensibile. Una matassa intricata, anche per uno tosto come Branco: non riusciva a rintracciare il bandolo, uno straccio di bandolo, egli era in piena crisi di idee, di fame, di sonno, e soprattutto di nervi. Si sentiva stanco e confuso. La faccenda si presentava come un vero rompicapo. Ricapitolando, si ripeteva mentalmente l’assunto: un’ascia assassina s’era conficcata nella testa della povera signora Margherita, e tre settimane dopo un’altrettale ascia era stata abbandonata nella testa del povero signor Alfredo. Dal punto di vista delle indagini il punto cruciale, l’enunciato del dilemma, la definizione del problema si presentava nei seguenti termini: come l’acuminata ascia conficcata nella testa della signora Margherita poteva correlarsi con l‘affilata ascia confitta nel capo del signor Alfredo? Sopra a tale correlazione l’ispettore Branco si accingeva ad applicare il suo infallibile genio investigativo. L’ispettore Branco, detto il segugio, ma pure talvolta il bracco, non era intonso a casi del genere. Egli era il vanto e l’orgoglio della polizia locale. Timido per carattere e riservato per natura, il nostro modesto eroe poteva ben definirsi una vecchia volpe, un’intelligenza rara e scoppiettante, un bracco, appunto, un fox terrier dal fiuto infallibile, dall’ingegno vivace e dall’intuizione folgorante. Una mente lucida sottile e fina come una faina consumata. La sua mente era un formidabile intreccio di intuito e intelligenza. Su decine di casi Branco aveva trionfato. Su rarissimi casi, invece, viceversa, no - capita. Non tutte le ciambelle, è notorio, riescono col buco. Ma, a prescindere da questi rari infortuni, da questi buchi neri, Branco vantava un curriculum di rispetto, un carniere di successi più nutrito di tanti altri suoi colleghi e, nel complesso, più che onorevole. Per lui il delitto perfetto non esisteva. E se qualche volta non ne era venuto a capo era: o perché il caso non gli era stato affidato, o perché il delinquente, occorreva ammetterlo, si era rivelato più abile di lui nel congegnare il crimine, o semplicemente perché il delitto non era stato commesso. Nel corredo, nel paniere delle proprie abilità professionali e nel suo vasto repertorio di competenze, non gli era estraneo un obolo di fortuna, una decima del caso, la quale fortuna e il quale caso anzi, assieme a una infallibile istintività naturale, spesso giocavano un ruolo decisivo nella soluzione de’ casi. Qualche volta, non nuoce, il buco veniva alla ciambella.
A Branco, essere timido discreto schivo riservato ed angelicamente delicato, non interessava quasi mai il movente del delitto, per una forma di ritegno, di educazione, di pudore, di riservatezza; egli non amava intromettersi negli affari altrui, non amava ficcare il naso nelle questioni private della gente e di conseguenza non si addentrava nel merito delle questioni che non lo riguardavano personalmente. I suoi sforzi si focalizzavano e si concentravano solo nello scovare il reo, a lui interessava solo risalire al colpevole, incastrare il delinquente, l’omicida: nel caso presente, il duplice omicida – la mano omicida era una sola: trattavasi per lui di una salda verità.
Fisicamente, l’ispettore Branco, sebbene rigorosamente vegetariano, era corpulento, di figura massiccia, ampio di spalle e di torace, tozzo nel tronco e breve negli arti, con un faccione bianco d’un pallore lunare, tondo come un pesce palla e una testa sferica come un cocomero attaccata direttamente al tronco, senza collo, e senza perciò noce d’Adamo. La faccia spenta da grossa tenia, il suo volto dolce e rilassato e sempre sorridente presentava i tratti distesi e miti di un monaco mongolo. Se non fosse che il suo aspetto suscitava un po’ di nausea, lo si sarebbe detto un pacioccone. Ma la sua mente potente e permanentemente protesa alla verità, permanentemente attiva e creativa nel suo campo professionale, possedeva un’abilità e una prontezza rara, una astuzia inattesa e una introvabile raffinatezza intellettuale: quella di un dotto cardinale, come se ne incontrano, di abili e machiavellici e diabolici, nelle pagine dei romanzi d’avventura. Sì, occorre ammetterlo, doveroso tributo al merito, la sua finezza intellettuale era degna d’un cardinale Richelieu!
Branco non era un sofista, un astratto; al contrario, figlio di agricoltori, aveva entrambi i piedi ben piantati nel terriccio e nella torba, sino a metà tibia. Era un tipo spiccio positivo pratico e concreto, senza fronzoli. Una persona moderna e, ad onta della stazza, dinamica. Poco più alto di un bonobo, brillante studente di teologia, pupillo del vescovo della diocesi, che lo gratificava della sua amicizia e lo circondava d’un caro affetto e d’un filiale delicato amore, fu allontanato dal seminario quando furono chiare le sue tendenze omosessuali e si cominciava a vociferare maliziosamente circa i suoi poco spirituali rapporti con alti prelati della curia. Dopo aver lavorato come apprendista presso un pompa di benzina, dopo essere stato assunto da una impresa di pompe funebri ed essere passato attraverso una serqua di frustranti esperienze lavorative poco qualificanti, il dottor Mefisto Branco imboccò la strada dell’investigazione giudiziaria. In tale campo egli si rivelò ben presto versato quanto mai. Da parecchi anni era la punta di eccellenza della polizia locale. Nel caso presente, intorno al suo infallibile fiuto ruotava una miseria di indizi, poco più di nulla, a parte un’accetta e un cadavere in ciascuno dei due delitti, sfasati di tre settimane appena. Branco non si perdé d’animo, era pronto alla sfida. Sapeva valutare tutti gli elementi, senza sottovalutarne alcuno. Peccato che non ne avesse. Come sempre, si armò di finita pazienza, cominciò a guardarsi intorno, ad annusare l’aria, ad implementare il proprio fiuto incommensurabile, la propria perizia. Erano casi come questi che nella sua mente e sul suo spirito agivano, prorompevano, si esercitavano, si effondevano e si aguzzavano gli stimoli più potenti. Nessun personaggio sospetto e losco orbitava intorno al caso del ragioniere e della moglie uccisi entrambi con la stessa dinamica, la stessa ferita causata da un secco colpo d’ascia sopra la fronte. Chi quei colpi scoccò, si direbbe abbia avuto tutto il tempo di agire e tutto il comodo di prendere la mira, di individuare la regione ove esattamente assestare il micidiale colpo, come se invece di colpire una testa umana si trattasse di spaccare in due, con millimetrica precisione, un cocomero dalla buccia verde e lucida. Il colpo micidiale, perfettamente vibrato, aveva colpito in pieno, in maniera incredibilmente netta pulita e precisa. C’era sotto la mano di un professionista, di un ascista, o di un asceta? La nuova scena del delitto era esattamente quella che a Branco si presentò tre settimane prima. La stessa, identica scena. Una replica. Una fotocopia, una cartacarbone, una riedizione, una fedele riproposizione, un dejavu. Lo stesso lago di sangue, lo stesso odore di cadavere ancora fresco, gli stessi fiotti caldi che fuoriuscivano dallo scatola cranica e dal cervello ancora vivo, vivo pulsante e mucillaginoso come una medusa, come una sfibrata spugna appunto pulsante. Pochi gli indizi, nessun sospetto, nessun indiziato.
Non si sa come, all’improvviso a Branco balenò un’intuizione: nell’archivio della memoria dell’ispettore, venne alla luce che il ferramentista del negozio sotto casa, un fanatico tifoso del Verona, un losco supporter della curva sud, commerciava quello stesso tipo di ascia. Non fu difficile appurare che il venditore, prima del delitto, teneva in magazzino tre asce e che ora gliene rimaneva solo una. La cosa, se non proprio i sospetti, solleticò la curiosità di Branco. La sottile mente speculativa dell’investigatore nel silenzio della volta cranica, in un presagio di sventura, proclamava che l’assassino era ancora in circolazione e avrebbe potuto uccidere, secondo il popolare proverbio, per la terza volta. Branco era essenziale, laconico nella parlantina e non proferiva mai parola se non in caso di estrema necessità. Tuttavia, gli fu necessario interrogare con urgenza il ferramentista; gli chiese se quell’ascia, orribile strumento di morte, fosse la sua. Un curioso modo di cominciare una conversazione, fu il tacito commento del ferrametista: Branco non gli si era presentato, non gli si era ancora qualificato. “Sì - disse l’esercente, sorpreso da quella domanda - era mia”. “E come mai ora si trova lì?” – incalzò Branco, indicando con lo sguardo e con un deciso levar del mento e un impercettibile concomitante sollevar di palpebre, la testa del ragioniere. “Bo – rispose con encomiabile sintesi il commerciante d’asce, scrollando le spalle. Indi aggiunse: “Ora che ci penso, ne ho vendute due”. “E come mai - obiettò il Branco - di colpo (è il caso di dirlo) ne ha vendute due in pochi giorni, quando in sette anni non ne ha venduta neanche una?” “E chi lo sa – tornò a rispondere con inerte ritrosia il negoziante – misteri del commercio”. “Ricorda a chi le ha vendute?” “A uno - rispose il commerciante - anzi a due, a due spaccalegna, suppongo”. Il Branco apprezzò la genuina laconicità o l’astuta incapacità del suo interlocutore di profferire frasi con non più di nove parole, che racchiudevano preziose informazioni in non più di venti sillabe.
Mentre attentamente ascoltava le interessanti dichiarazioni del ferramentista, Branco si accorse che accanto al cadavere allungato sulla sedia, disposto come se dormisse una serafica pennichella, di quelle che se ne dormono tante in ufficio nelle giornate calde d’agosto, sotto un fermacarte in pietra d’onice con la proboscide rivolta verso il basso, giaceva un biglietto bianco pulito immacolato, senza alcuna macchia di sangue. Su quel biglietto che immancabilmente attirò l’attenzione di Branco stava scritto, con grafia sicura, bella, chiara, decisa, perfettamente leggibile: “Ad assestarmi il colpo mortale fu Otello il macellaro, il ferramentista non centra”.

Fu allora che la storia, inaspettatamente, prese una piega inattesa, ci fu una svolta improvvisa nelle indagini appena avviate, l’ordito cambiò trama. A Branco, come in un lampo, si schiarì la mente, gli si rivelò la verità del caso nella sua piena luce: gli sembrò d’aver visto giusto, sembravagli d’aver diradato le nebbie, dissipato ogni dubbio: cominciava finalmente a vederci chiaro… eragli chiaro che finalmente s’era a un passo dalla verità, a un millimetro dalla soluzione del caso. Fu come la luce di un riflettore, di una improvvisa esplosione solare, di un grosso petardo che illuminò a giorno la mente di Branco, mente che si drizzò, fece i primi passi, si mise in moto e cominciò a alacremente lavorare, a febbrilmente martellare, e a incanalare le giuste idee nella giusta direzione. Mentre un secondo prima non riusciva a raccapezzarsi e a padroneggiare la situazione, ora, come se il biglietto avesse stimolato la sua riflessione, come se si fosse aperta un valvola, la paratia di una chiusa, le saracinesche di una diga, come se fosse stata girata la chiavetta di un interruttore, Branco di colpo cominciò a concettualizzare, a congetturare, a ragionare, persino a elucubrare, a arzigogolare, a plasmare la miriade di idee magmaticamente fluide, torrentizie, impetuose, persino tumultuose, che si erano formate e che andavano ammassandosi nella sua mente - uno stoccaggio di idee che ora, inventariate e messe subito in ordine, andavano a costituire una solida teoria. Come se sotto le viscere del suo cervello si fosse verificato un tremendo benefico sisma e, come immediata conseguenza, si fosse sollevata un’ondata potente di neuroni, ora Branco ragionava senza sforzo e senza limiti; sottilizzava; stabiliva catene di relazioni; colla più fervida fantasia ricamava sul filo della realtà. Nel faccione da monaco mongolo di Branco, o di bianca grossa tenia, ora finalmente era comparso e si stampava un flebile sorriso ebete, si leggeva una viva soddisfazione, il tenue compiacimento che la sua teoria aveva un sacco di punti forti, anzi solo punti forti, e nessun punto debole, manco uno. Le nebbie s’erano oramai come diradate, il giallo oramai era praticamente risolto… Branco, non brancolava più. Con un aria più scema che mai, ora Branco si sentiva sollevato e eccitato: aveva ancora trionfato, fatalmente. Nella guerra contro il crimine, quel che viene viene, quel che capita capita, si è sempre in attesa di eventi, di un caso nuovo e, all’interno dei casi, di fatti imprevisti. Un investigatore non sceglie le proprie battaglie, le combatte e si sforza di vincerle. Dà tutto se stesso. Branco stava vincendo ancora. Il suo carniere si stava arricchendo di un nuovo successo. La parabola della sua brillante carriera si stava splendidamente compiendo e concludendo.
Questa, signori miei, è la chiusura del giallo, una chiusura del cavolo (un cavolo giallo?) poiché la parabola, così come l’iperbole, non è una linea chiusa.

Il giallo fu concluso. Prima di spegnere le luci, tuttavia è bene spiegare come Branco riuscì a risolvere magnificamente il caso. Branco non sottovalutò la portata del biglietto, anzi annesse a quello scritto la dovuta e decisa importanza che questo richiedeva e rivestiva. Studiando attentamente il contenuto di quello scritto, a Branco, per una serie di serie ragioni che non stiamo qui a noiosamente catalogare per non tediare il lettore, ma che sarebbe buona cosa non sottacere, venne in mente che quelle frasi non potevano essere state né concepite né tanto meno scritte da Alfredo, la cosa subito puzzogli d’imbroglio. Che si trattasse di una messa in scena, ingenuamente messa in atto dal ferramentista, apparve alla sua potente mente talmente ovvia che egli la catalogò come dato certo e non come ipotesi.
A questo punto, i suoi incrollabili sospetti - che stavano per trasformarsi in infallibili certezze - si appuntarono immediatamente non sul macellaro Otello, come voleva far credere il biglietto, ma sul ferramentista, lo sfegatato tifoso del Verona (l’unico personaggio della gialla vicenda a non essere identificato con un nome). La vicenda oramai era chiara, il colpevole era certo. Occorreva ancora provare che l’autore di quel bigliettino fosse stato non il macellaro, ma il ferramentista: ma come? Questo era il punto critico, il punto snodale della situazione. Sarebbe bastato verificare che la scrittura del ferramentista fosse la stessa di quella vergata sopra il biglietto. Ma come? Branco, nella cui mente ora le idee venivano a branchi, a esplosioni continue, come un gioco d’artificio, concepì una magnifica trovata, tanto magnifica quanto complessa. Ma che possiamo proviamo a tradurre ed esporre nel seguente semplicistico modo: fare scrivere al ferramentista qualcosa, una qualunque frase, e poi confrontare la sua scrittura con quella del biglietto. Già, ma quale frase fargli scrivere? Questo il punto. Branco, rimasto fanciullo nell’animo e nei sentimenti, si ricordò di una vecchia ninna nanna inglese che la nonna inglese ogni sera, dopo carosello, gli cantava sempre, prima di addormentarlo, e che diceva pressappoco così:

T ommy Snookes e Bessy Brookes
stavano passeggiando una domenica.
Disse Tommy Snookes a Bessy Brookes
“Domani sarà lunedì”.

Branco fece scrivere e riscrivere più volte la frase al ferramentista. Fatte trascrivere per ben rivolte le strofe della ninna al ferramentista, Branco, con il solito infallibile acume, si accorse che costui possedeva la stessa grafia con cui fu scritto il bigliettino che accusava l’innocente macellaro Otello. Incalzato da Branco, inchiodato dalla sua eloquenza e avvitato dalle ineludibili schiaccianti prove e schiacciato dall’implacabile evidenza del caso, dopo qualche resistenza fatta di eloquenti silenzi, di inutile resistenza passiva e di incomprensibili farfugliamenti di parole, il ferramenta, congratulandosi con Branco per l‘acume dimostrato, sentendosi morire di vergogna, con le guance rosse e brucianti come quelle di un bambino sorpreso a rubare la marmellata, in un pianto dirotto, in una sinfonia di singhiozzi, con un fil di voce pispigliò la propria colpevolezza, ammise onestamente e correttamente il proprio atroce duplice delitto. Maturato nel mondo delle opposte fazioni calcistiche. Ma di questo a Branco poco o nulla importava, a lui il calcio non interessava punto.
Quel che per lui solo contava è aver chiuso il caso e aver fornito e assicurato un altro delinquentone alla giustizia.

Pesce Spada